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SUGGERIMENTI PER LA COMPRENSIONE DEL CINEMATOGRAFO
in quanto a linguaggio, critica e... altro!



"... questa è la bellezza del cinema. Ti porta in luoghi dove nessun biglietto aereo ti può portare. Con un biglietto del cinema puoi andare in posti che non esistono più" ci ricorda Jean-Jeacques Annaud. Il cinema è probabilmente la prima e vera arte universale, se consideriamo l'ampiezza del suo ascolto. Per Louis Delluc: "Il cinema va ovunque, è un grande mezzo per conversare tra i popoli". Il successo planetario di cui gode da cent'anni e la capacità di coinvolgere persone di ogni ceto sociale, credo e cultura rappresenta un fatto epocale. Per Luis Buñuel: "Il cinema è un'arma magnifica e pericolosa, se a maneggiarla è uno spirito libero. È lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, degli istinti. Lo si direbbe inventato per esprimere la vita del subconscio, le cui radici penetrano così profondamente nella poesia".

Il Cinematografo (in quanto tale), con la complicità del buio della sala, sinonimo di segretezza e nel contempo di tacita intesa, riesce a centrare il suo obiettivo se riesce a risvegliare le parti più recondite del nostro inconscio portandoci a vivere con personaggi brillanti e nobili oppure infelici e malvagi, le situazioni più audaci o sgradevoli. "Come il sogno, il Cinema risveglia il nostro inconscio, induce identificazioni vergognose e segrete, fa da valvola di scarico a desideri repressi e a tensioni latenti" scrive Morando Morandini. Affinché ciò si possa realizzare è necessario che l'atteggiamento di fronte allo schermo non sia distaccato ma di totale partecipazione. Per Francis Vanoye e Anne Goliot-Lété: " È noto il potere ipnotico dell'immagine, sia essa impressa sullo schermo nella sala buia, sia essa televisiva. È nota la facilità con la quale si è capaci di abolire la distanza tra sé e lo schermo per entrare, o meglio per sprofondare nel mondo finzionale del film". Ci sono storie così assurdamente originali che però possono indurre lo spettatore al «viaggio» se «vissute» in una sala buia e silenziosa; notevoli d'altronde sono le innovazioni tecnologiche che l'industria cinematografica applica alla visione, al sonoro e al condizionamento strumentale della sala affinché questa partecipazione sia totale e si vivano tutte le emozioni possibili. Scrivono Jacques Aumont, Alain Bergala, Michel Marie e Marc Vernet: "L'impressione di realtà provata dallo spettatore durante la visione di un film dipende innanzi tutto dalla ricchezza percettiva dei materiali filmici, dell'immagine e del suono. Per ciò che concerne l'immagine cinematografica, questa «ricchezza» è dovuta al tempo stesso alla grandissima definizione dell'immagine fotografica (si sa che una foto è più «definita», più ricca di informazioni di un immagine televisiva)".

"Fate che ridano, che piangano, che aspettino", David Wark Griffith

Il cinema permette l'oniricità e per questo bisogna essere (percettivamente) estremamente flessibili per farsi trascinare all'interno dei meandri del racconto. A tal riguardo introduciamo il concetto di "Sospensione dell'incredulità" necessaria per partecipare «attivamente» alla visione di un film: Samuel Taylor Coleridge scrive nel 1817: "La sospensione dell'incredulità o sospensione del dubbio è la volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le inconsistenze secondarie e godere di un'opera di fantasia". La Sospensione dell'incredulità si attiva naturalmente nella narrazione più che nella visione, quindi e soprattutto nella lettura, nel teatro e nell'ascolto. Nel Cinema è necessario che si instauri una complicità tra spettatore e autore affinché quest'ultimo possa sconfinare nell'onirico, nell'inverosimile e nel fantastico senza perdere la partecipazione e la credibilità del pubblico che ne accetta totalmente le ipotesi. Come in un sogno chi guarda interrompe la sua personale percezione della realtà per partecipare attivamente al racconto inverosimile che possa sembrare. Supportato da una sceneggiatura coerente dal linguaggio filmico adeguato, lo spettatore «capace» di sospendere l'incredulità resta in questo stato senza mai rientrare nella coscienza reale, fino alla fine del film; sacrifica il suo realismo per accrescere la capacità di emozionarsi. Se questo non accade è soprattutto per l'incapacità, o la non volontà, dello spettatore di «concedersi passivamente» alla storia; ma è anche possibile che il film possa fallire per proprie mancanze; magari il regista ha esagerato nel proporre un'intreccio spropositato e non supportato adeguatamente da tutte le fasi artistiche e tecniche della messa in scena.

Risulta chiaro che il Cinema si fa nella sala buia e silenziosa e non in televisione; la luce e il sonoro di fondo di matrice casalinga, classici del mezzo televisivo rovinano il «viaggio». Per M. Morandini: "Sul teleschermo il film è soltanto un simulacro" e ancora: "Contro i film sul teleschermo. Esistono film in cui avvengono azioni così folli che hanno bisogno del buio della sala (della notte) per sembrare credibili o, comunque, accettabili. La mezza luce casalinga dissipa la loro follia". Il cinema è come vivere un sogno e in esso e per esso è tutto lecito. È necessaria una compartecipazione linguistico-strutturale tra il film e la volontà dell'osservatore di abbandonarsi alla messa in scena preparata ad arte dai «burattinai» del cinema: il produttore, il regista, il direttore della fotografia, lo sceneggiatore, lo scenografo, la troupe in genere e gli attori. In questa metafora chi tiene i fili in realtà sono: il produttore, che dispone dei fondi e li investe per la realizzazione del film rischiando in prima persona se il prodotto finito non incassa abbastanza da coprire le spese e realizzare profitti; il regista o il cineasta, direttore artistico del film, capace di creare un'opera d'arte o un abile spettacolo intrattenitivo. Sul cinema intrattenitivo scrive in merito il regista Raffaele Matarazzo: "Fare un film commerciale è tanto difficile quanto fare un qualunque film d'arte, occorrono anzi maggiore sagacia, abilità, precauzione a realizzare un film commerciale che non un film a tesi". Ci sono tanti film destinati ad un pubblico di massa che vuole soltanto lasciarsi incantare dal fascino del grande schermo senza tante «interferenze» culturali. Sul cinema «artistico» scrive invece Federico Fellini: "Fare un film è come fare un viaggio, ma del viaggio mi interessa la partenza, non l'arrivo. Il mio sogno è fare un viaggio senza sapere dove andare, magari senza arrivare in nessun posto, ma è difficile convincere banche e produttori ad accettare questa idea...".

Non di rado è il produttore stesso che assurge ad autore del film impiegando il regista soltanto in competenze tecniche; i risultati migliori però spesso sono stati ottenuti da registi che sia per meriti artistici che capacità produttivo-commerciali sono responsabili a tutto tondo dell'opera. I rapporti burrascosi tra regista e produttore costellano tutta la storia del cinema, il caso più emblematico si ricorda per Quarto Potere, considerato a tutt'oggi uno straordinario capolavoro, scritto, interpretato, diretto e prodotto da Orson Welles nel 1941. Ricorda il finanziatore, presidente della Columbia, Harry Cohn: "Non farò mai più un altro film come questo. Non è per via della sceneggiatura, capisci; quella l'ho letta e approvata, gli altri dicano quello che gli pare. È solo che nessuno dovrebbe essere il regista e il produttore e per giunta il protagonista di un film. Non c'è modo di licenziarlo. Con uno che ha un contratto così, che senso ha che io sia padrone del mio studio? Potrei anche fare il portinaio". Il regista oltre che a mediare con il produttore deve coordinare tante figure tecniche nel contempo capaci di autonomia artistica, come quella del direttore della fotografia, cioé il regista della luce e dell'immagine. Lo straordinario Sven Nykvist autore della fotografia di gran parte dei film di Ingmar Bergman, scrive: "La sceneggiatura è il punto di partenza. Il regista è colui che traduce la sceneggiatura, che ne dirige la messinscena. Gli attori la fanno vivere, il compito del direttore della fotografia, quindi, è di esprimere le intenzioni della sceneggiatura e la traduzione che ne fa il regista". Insieme alla fotografia un'altro cardine del linguaggio cinematografico è il montaggio; con esso si assemblano le sequenze ma anche le singole inquadrature dando al film un ritmo ed uno stile proprio. Per Walter Murch, montatore di gran parte dei film di Francis Ford Coppola: "... una delle responsabilità fondamentali del montatore: costruire un ritmo interessante e coerente di emozioni e di pensieri, su piccola e grande scala, per consentire al pubblico di lasciarsi andare, di darsi al film". Ma le immagini acquistano forza e significato anche e soprattutto con il sonoro attraverso tre mezzi linguistici diversi: i dialoghi, i rumori e il commento musicale. Ricordiamo tra l'altro che un'immagine sonora, o la stessa muta, possono produrre un significato diverso. Tutto ciò che si vede e si sente in una pellicola è stato descritto dettagliatamente in quel processo minuzioso conosciuto come sceneggiatura, la scrittura del film, non solo in quanto racconto ma soprattutto quale descrizione di tutte le fasi tecnico-artistiche della messa in scena. Continuando a smontare analiticamente il film è necessario analizzare singolarmente le scenografie, i costumi e il trucco responsabili dello stile visivo e dell'immagine pittorica; e poi ancora la recitazione spesso sopravvalutata e la produzione, collante del tutto. Gli effetti speciali, infine, oramai vanno considerati a se stanti come un elemento significativo del linguaggio al pari degli altri citati. A proposito dell'importanza delle scenografie sostiene il cineasta Giuseppe Ferrara: "È evidente l'importanza della scenografia: se il suo compito è la predisposizione o la scelta dello spazio che l'obiettivo dovrà inquadrare, vuol dire che questa tecnica opera direttamente su uno dei cardini del linguaggio cinematografico ( il film è infatti spazio e tempo)". In definitiva la pellicola è un'opera collettiva capace attraverso la sua grammatica, il linguaggio, di assurgere ad opera d'arte. Il linguaggio cinematografico proprio di un cineasta, nonostante la complessità del processo produttivo che prevede contributi artistici diversi, fa del film il suo mezzo di espressione. Dichiara a riguardo William Friedkin:"I film non appartengono mai ad una sola persona. Ritengo l'intera teoria dell'«auteur» un'autentica stronzata. Non sono mai stato su un set dove le idee non siano venute un po'da tutti...".


Uno spettatore esigente, con un bagaglio cospiquo (necessario) di pellicole viste presto non si accontenterà più di «viverle» soltanto, ma cercherà di leggerle smontando i film nelle suo componenti per carpirne i segreti. Il cinefilo, o per mestiere o per passione, chiede sempre di più alla messa in scena perché riconosce al Cinematografo complesse finalità espressive ed estetiche, dunque non solo intrattenitive. Un'analisi accurata si basa però su più visioni meticolose dello stesso film; alla prima proiezione infatti è possibile manifestare solo un'impressione, infatti un film articolato sia dal punto di vista estetico che tecnico, rivela soltanto a più visioni successive particolari reconditi e straordinari, difficilmente leggibili in un unica proiezione. Nell'analizzare un film inoltre riveste un'importanza fondamentale la definizione dello scopo del prodotto finito, cioè se il film è un'opera d'arte o d'intrattenimento. Analista e spettatore hanno un modo diverso di recepire il film: lo spettatore si lascia dominare dal film (vedere), l'analista nella prima visione sarà dominato come uno spettatore, nelle successive invece diverrà critico (osservare). «Vedere» ed «osservare» sono due cose ben distinte: con l'osservazione si porta attenzione ai particolari; nel cinema ciò porta a scoprire, osservando, cose che nel vedere... non si percepiscono! Lo spettatore guarda al cinema quale svago, l'analista quale produzione intellettuale e/o riflessione. Per analizzare dobbiamo scomporre, decostruire il film in tutti i suoi aspetti perché la totalità del prodotto impedisce, a causa della sua complessità un'analisi accurata. Lo scopo è quello di tenere tutti gli elementi costruttivi separati. Poi segue la fase della ricostruzione e ricomposizione degli elementi stessi per comprenderne l'elemento significante globale. Una visione attenta e critica che analizzi il film nei suoi molteplici aspetti, è terreno delicato e d'impegno non trascurabile; non soltanto presuppone una preparazione tecnica e storiografica ma si basa inevitabilmente sulla visione dell'opera di almeno tre volte. L'eminente critico tende non poche volte a trascurare la visione emozionale, la prima dove si sospende l'incredulità, per affrontare in prima istanza la fase della decostruzione e della successiva ricostruzione! È vero anche che l'intuizione e l'esperienza aiuta molto l'analista ma si diffidi degli scritti critici, pur di eminenti studiosi, basati su di un'unica proiezione.

La ricostruzione è sinonimo d'interpretazione. Il tutto è l'analisi.


decostruzione = descrizione
ricostruzione = interpretazione
decostruzione + ricostruzione = analisi


La descrizione è la fase della decostruzione e non è minimamente parente dell'analisi anche se ne è una componente. E non è possibile interpretare, quindi ricostruire, se prima non si è decostruito... smontato, meramente descritto. La decostruzione, in generale, è lo studio dei vari aspetti inerenti al meccanismo filmico e non può essere effettuata con un'unica visione. Sostengono Jacques Aumont e Michel Marie: "A. Non esiste un metodo universale per analizzare i film. B. L'analisi del film è interminabile perché, qualunque ne sia il grado di precisione e l'ampiezza, resterà sempre qualcosa di analizzabile in un film. C. È necessario conoscere la storia del cinema e la storia dei discorsi che già esistono sul film scelto al fine di non ripeterli, e inoltre occorre interrogarsi sin dall'inizio su quale tipo di lettura si desidera praticare". Attenzione poi, a non passare ad una ricostruzione dove l'immaginazione personale va ben oltre la messa in scena cinematografica. Lo spettatore che vede nel Cinematografo solo lo «svago», si accontenta di raccontare ciò che ha provato. Si è capaci di analizzare invece, tanto più il proprio racconto o la descrizione saranno ricchi di tutto ciò che è stato espresso.

Il significato di un film è l'unione tra il suo contenuto (la storia), e la sua espressione (il modo di raccontare la storia). Raccontare in modo differente può ragionevolmente cambiare il senso della stessa storia. Naturalmente poiché nessuno è depositario della verità, la pluralità delle interpretazioni, se argomentate, ha senso.

storia + modo = significato

Il significato cinematografico (storia + modo) nel cinema inteso quale mezzo d'espressione artistica assurge ad arte. Lo studio quale arte introduce il concetto di estetica cinematografica. L'estetica è la riflessione su produzioni considerate come fenomeni artistici: per Aumont, Bergala, Marie e Vernet: "L'estetica del cinema è dunque lo studio del cinema in quanto arte, lo studio del film in quanto messaggi artistici. Essa sottintende una concezione del «bello» e dunque del gusto e del piacere dello spettatore come teorico".

Dunque, un film di per se è così complesso da richiedere una lettura stratificata in quanto evento artistico e tecnico: da una prima analisi sostenuta soprattutto dalle emozioni e/o dalle doti culturali insite in ogni spettatore, si passa ad una critica degli strati più profondi, possibile soltanto con l'ausilio di strumenti specifici frutto di studi e visioni dell'intero panorama cinematografico.




BIBLIOGRAFIA:

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M. Morandini "Non sono che un critico", Pratiche 1995.
W. Murch "In un batter d'occhi", Lindau, 2000;
P. Uccello "Cinema - tecnica e linguaggio", Edizioni Paoline, 1987;
K. Reisz, G. Millar "La tecnica del montaggio cinematografico", Lindau, 2000;
U. Pirro "Per scrivere un film", Lindau, 2001;
D. Catelli "Friedkin - Il brivido dell'ambiguità", Transeuropa, 1997;
G. Ferrara "Manuale di regia", Editori riuniti, 1999;
L. Gandini "La regia cinematografica", Carocci, 1998;
S. Nykvist "Nel rispetto della luce", Lindau, 2000;
F. Di Giammatteo "Introduzione al cinema", Bruno Mondadori, 2002.





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